Commenti d’Arte e Fede

L’ANNUNCIO DELL’ANGELO A ZACCARIA

L’episodio dell’annuncio dell’Angelo a Zaccaria è narrato dall’evangelista Luca nel capitolo 1. Quando scrive, Luca si trova in un contesto letterario già molto ricco; pertanto, come altri autori neo-testamentari, attinge dalla Tradizione. L’autore del terzo Vangelo ci fornisce una notizia interessante: quando, nella seconda metà del I secolo, egli decise di narrare i fatti riguardanti Gesù Cristo, erano già in atto da parte dei primi cristiani dei tentativi di riportare in modo ordinato episodi, racconti, parabole e detti del Signore, affinché il tutto non andasse perduto. Pertanto, i Vangeli non furono i primi scritti su Gesù, ma fecero riferimento ad altre testimonianze scritte sparse presso le prime comunità di credenti, o elaborate da predicatori itineranti, che le impiegavano nella loro opera di evangelizzazione. Probabilmente la predicazione non era soltanto il “kerigma”, ma anche racconti di miracoli e dei detti di Cristo. La fede, pertanto, non si è fondata su di una qualche ideologia, ma ha avuto origine in un evento saldamente radicato nella storia, da cui si è poi originato l’annuncio e, con esso, la fede.

I temi dell’infanzia di Gesù e del suo concepimento non destarono particolare interesse nella Chiesa nascente, che preferì concentrare la propria attenzione sul periodo compreso tra il battesimo di Giovanni e l’ascensione di Cristo (At. 1,22). Tuttavia, Matteo e Luca dedicano agli episodi dell’infanzia del Signore molta attenzione.

I primi personaggi introdotti da Luca sono Zaccaria ed Elisabetta. Entrambi appartengono alla classe sacerdotale. Il sacerdozio ebraico si ereditava per appartenenza alla tribù di Levi, che Jhwh aveva scelto per il suo servizio, per la fedeltà che questa tribù aveva dimostrato durante l’episodio del “vitello d’oro” (Es 32,25-29).

L’episodio evangelico dell’Apparizione dell’angelo a Zaccaria è illustrato in un affresco nel ciclo di Santa Maria dei Ghirli a Campione d’Italia. La scena raffigura Zaccaria con l’arcangelo Gabriele nel tempio di Gerusalemme, iconografia rara nell’arte occidentale. Il Tempio è sintetizzato in un’edicola poligonale dalle strutture filiformi, secondo il gusto gotico, che impreziosisce le corti europee con argenti e ori e colori luminosissimi. L’artista ha ben restituito la reazione di Zaccaria alle parole dell’angelo. L’evento era di enorme importanza perché, nella mentalità giudaica, non si potevano coniugare tra loro santità e sterilità, considerata una punizione divina. Perciò, per rassicurare Zaccaria, l’apparizione avviene nella parte antistante il“Sancta Sanctorum”, nello spazio sacro che permette l’incontro con Dio.

Zaccaria aveva però dubitato delle parole dell’angelo: Come potrò mai conoscere questo? Come posso fidarmi? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni, dubita, non crede che l’onnipotenza divina, che lo ha tratto all’esistenza dal nulla, possa creare di nuovo e fecondare il grembo della moglie ormai senza più capacità di generare. Infatti l’angelo gli dice: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio», ossia,“hai davanti a te un essere celeste, l’annuncio è divino”:

«Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo». Ossia,“Poiché non hai creduto alla Parola di Dio, la Parola ti verrà tolta”. Il gesto divino va interpretato come un segno, che in seguito Zaccaria saprà interpretare, quando la Parola gli verrà ridonata.

L’artista ha ben reso la reazione di Zaccaria all’annuncio angelico: la sua figura si incurva in avanti, non in atto di riverenza verso l’angelo divino, bensì per contestare le sue parole, contestazione evidente nella gestualità delle mani, contraddette, a loro volta, dal movimento della mano destra dell’Arcangelo. Un gesto che è un monito:“Ecco, resterai muto, perché non hai creduto alla mia parola”.

(Elisabetta Sangalli)

LA VISITAZIONE

Un’iconografia assai diffusa nell’arte cristiana orientale è la “Visita della Madonna alla cugina Elisabetta”. La scena della Visitazione è narrata solo nel Vangelo di Luca.

L’evangelista vuole radicare le origini di Gesù e del Battista, vuole caratterizzare l’identità dei due personaggi, che costituiscono i punti d’incontro tra i due Testamenti.

I due racconti si sviluppano paralleli: all’annuncio a Zaccaria corrisponde quello a Maria; alla nascita di Giovanni, all’imposizione del nome, e alla circoncisione otto giorni dopo, corrispondono la nascita di Gesù, l’imposizione del nome a Gesù e la sua circoncisione.

Luca inizia il Vangelo partendo dall’inizio, sia perché, scrivendo a Teofilo, vuole raccontare “accuratamente dal principio i fatti” (1,3); sia perché così facendo, potrà presentare Giovanni e la sua missione, in rapporto con la figura e la missione di Gesù. Luca vuole sciogliere i difficili rapporti della Chiesa nascente col gruppo dei giovanniti, che vedevano il loro maestro superiore a Gesù, in quanto Gesù era stato suo discepolo (Gv 3,22-27; 4,1-3).

L’episodio della “Visitazione”, momento di incontro tra Antico e Nuovo Testamento, venne illustrato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. La scena fa da ponte tra le “Storie di Maria” e quelle di Cristo (1303). L’incontro tra Maria ed Elisabetta avviene all’esterno di un edificio gotico. Elisabetta dà il benvenuto abbassandosi verso Maria per abbracciarla e renderle omaggio.

Due donne accompagnano Maria: quella più a sinistra tiene un telo chiaro che le ricade dalla spalla destra, quale simbolo dei due bimbi che dovranno essere fasciati. La donna sull’uscio, a destra, appoggia invece una mano sul grembo, a indicare lo stato interessante delle due cugine.

Giotto propone un ritmo di narrazione che si esplica nella gestualità lenta e carica di affetti. Le due cugine sanno una cosa: la loro gravidanza è opera di Dio.

Il duplice annuncio dell’angelo di maternità (a Maria e a Zaccaria, marito di Elisabetta) è esaltato dai colori pieni di luce, mentre il valore plastico delle figure è dato da una linea capace di sintetizzare le forme in volumi pieni, di quella pienezza che è anche interiore.

Giotto ha finalmente liberato l’arte dallo schematismo bizantino, quella serietà che impediva ai volti e ai corpi di parlare, di relazionarsi, di esprimersi. Rifiuta il fondo oro ereditato dalla tradizione bizantina, che impreziosiva l’opera e donava ieraticità alle figure, ma cristallizzava i personaggi nell’incomunicabilità.

Giotto, invece, sceglie di inserire i personaggi in quella storia che si chiama “quotidianità”. Così la quotidianità umana può diventare storia divina e sacra. Con Giotto, l’umano è restituito al divino, perché il divino si incontra e si incarna nell’umano.

Luca racconta l’incontro tra due donne incinte: Elisabetta, al sesto mese, e Maria da pochi giorni. Quando Maria saluta la cugina, Giovanni sussulta nel grembo della madre, che loda Maria, “Beata perché ha creduto”.

(Elisabetta Sangalli)

“NATIVITA’ (LECCO, PARROCCHIA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA)

Una delle scene più raffigurate nell’arte sacra è la ‘Natività’, iconografia tra le più comuni e amate tanto nell’arte occidentale, che orientale. Il tema ritorna nell’opera conservata nella Chiesa di San Giovanni Evangelista in Lecco. Si tratta di un olio su tela riferibile alla Scuola lombarda e databile tra il Sei e il Settecento.

Al centro della scena vi è il Bambino circondato dalla Vergine in veste rosa e manto azzurro; da san Giuseppe, che figura a sinistra in veste color verde pallido e mantello color giallo-bruno; e da un pastore in abito verde e rosso sulla destra. Accanto al mandriano, compaiono per terra il bastone e un cestino, mentre alle spalle dei personaggi buona parte dello sfondo è occupata da una semplice casa dalla quale si affaccia un bovino. Unico elemento più propriamente ‘sacro’ sono i volti di due putti che assistono stupiti alla divina Epifania, mentre a sinistra il paesaggio sfuma d’azzurro in lontananza.

Se da una parte la forma sagomata della tela tradisce la sua provenienza da un edificio sacro, dall’altra questo dipinto di Anonimo si pone quale erede della tradizione rinascimentale lombarda, evidente nell’espressione dei sentimenti, nella quotidianità del vivere e, non ultima, nella poetica della luce.

Gli stessi personaggi non presentano particolari segni sacri, denotando uno spiccato tono popolare. La Madonna ricorda una robusta massaia, mentre la veste verde e il mantello ocra di Giuseppe, colori propri della terra, richiamano un carattere semplice e schivo, dedito alla famiglia e al lavoro. A sua volta il pastore, che tiene il cappello nella mano destra posta sul cuore in atto di devozione, restituisce la religiosità schietta della gente delle vallate lombarde. Sorpreso dal sacro evento lungo il cammino, ha scelto di fermarsi, ponendo a terra le sue cose.

Con sollecitudine Maria presenta il Bambino, avvolto nella sua vulnerabilità, così come apparirà il Venerdì Santo sulla croce quando manifesterà totalmente l’amore del Padre. In questa notte Maria lo ‘scopre’ per noi mostrandocelo ‘vivo’ e ‘vero’ e, svelandolo, permette alla luce che promana dal piccino di sprigionarsi per effondersi nell’oscurità: le sue carni luminosissime sono un chiaro rimando alla Santa Eucarestia, vero cibo dato agli uomini, come pure i poveri panni che scoprono la nudità del Bimbo ricordano il Parokhet, il velo squarciato nel Tempio al momento della morte del Signore.

“Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” aveva esclamato secoli prima il profeta Isaia sintetizzando, in una sola e molteplice voce, il desiderio umano di ritrovare il contatto con la sua fonte di Vita (Is 63,19).

Nella tela della Natività pare proprio che l’Eterno sia ‘sceso’, prima ancora che per offrirsi alla nostra contemplazione, per sgombrare il nostro cuore dalle immagini errate di un Dio inaccessibile, per accoglierlo come Egli effettivamente ‘è’: l’infinitamente ‘piccolo’.

(Elisabetta Sangalli)

L’ADORAZIONE DEI PASTORI

Nelle rappresentazioni artistiche a tema sacro un tema spesso raffigurato è la “Adorazione dei pastori”, perché illustra l’incarnazione del Verbo. San Giovanni, nel Prologo al suo Vangelo scrive: “In principio era il Verbo, e il verbo era Dio, e il Verbo era presso Dio”.

L’iconografia dell’Adorazione dei pastori inizia a comparire nel XV secolo e sarà comune nel XVII. La tavola in considerazione è opera di George De La Tour, pittore del Seicento francese.

Pittore della corte reale francese, De La Tour era apprezzato nei circoli più colti del tempo. E’ uno dei primi pittori francesi a seguire il rinnovamento apportato nell’arte da Caravaggio.

L’immagine presenta al centro un neonato che sta dormendo, stretto nelle fasce, disteso immobile su un giaciglio di paglia. Intorno al sono raccolti in silenzio cinque personaggi a semicerchio. Maria, a sinistra, è la figura più luminosa.

La candela che Giuseppe tiene in mano illumina il neonato al punto tale che pare quasi sia proprio il Bambino Gesù a illuminare i volti, i corpi, i cuori. Ogni figura sembra brillare della luce riflessa del Bambino, luminosissimo. Illuminando i soggetti con piccole fonti di luce che ravvivano tutta la stanza interiore, il realismo caravaggesco permette a De La Tour grandi effetti evocativi.

Luca racconta l’entrata di Dio nella storia umana: “Gli fu messo nome Gesù, com’era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo”. Abbiamo tutti ricevuto un nome alla nostra nascita, un nome pensato da chi ci ha generato e che sarà legato per sempre alla nostra identità.

All’ottavo giorno Gesù riceve il suo nome, “Jeshua” (“Dio salva”). Nel nome c’è il suo scopo nel venire alla vita, la sua missione: salvare l’umanità ferita. Nome e missione sono inscindibili, appartengono all'”esserci” della persona, come soggetto fisico e identità.

Quindi i pochi cenni di Luca rilevano un Dio che interviene nella storia umana, per farne una storia sacra. In quest’ottica va esaminata l’opera di De La Tour, che collocando gli episodi del Vangelo in ambienti quotidiani, attualizza il messaggio della Salvezza, l’entrata di Dio nella realtà umana.

De La Tour, pittore dell’anima, raffigura un Dio che “entra” in casa nostra, la sua pittura si fa Parola e rivelazione.

Il semicerchio con cui i cinque personaggi si dispongono – e nella numerologia biblica il 5 simboleggia Israele – è aperto verso noi. L’artista ci invita a percorrere lo stesso cammino dei pastori, perché con essi anche noi «andiamo e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Luca 2,15).

San Giovanni, nel suo Vangelo, dopo aver detto che “il Verbo era sin dal Principio”, ossia dall’eternità, e che “era Dio, che lui era la vita e la vera luce degli uomini”; ci dice che “i suoi non l’hanno accolto. Ma a quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”. Il “credere” ci ri-genera come figli spirituali, nella misura in cui accogliamo il Verbo, Cristo-Logos, che ci ricrea nell’uomo interiore. Un Dio fatto carne: De La Tour dipinge un bimbo vulnerabile come altri, ma segno della presenza divina, perché «Dio con noi».

I Pastori sono persone semplici, ma dignitose, De La Tour li raffigura vestiti a festa, le pettinature sono curate: hanno intuito sul volto del Bambino una presenza divina, e la accolgono. Proprio come l’artista, il quale, avendo educato il suo sguardo, sa distinguere nella povertà del quotidiano lo splendore della presenza di Dio, e con quest’opera ci invita a cogliere nella nostra e altrui umanità la Presenza divina.

Maria veglia rivolta al figlio, ma guarda più avanti. Senza aureola, è consapevole del mistero e prega per il Bambino, affidandolo al Padre: arde d’amore nel suo abito rosso il fuoco dell’amore.

Giuseppe protegge con le mani la fiamma della candela, come poi proteggerà il bambino. La candela accesa nella mano è simbolo del cero acceso nella Messa della notte di pasqua.

L’agnello pasquale e le spighe sono simbolo dell’eucaristia: l’agnellino è l’essere più vicino al Bambino Gesù, agnello di Dio.

Ecco il messaggio che De La Tour cela nel suo Capolavoro: acquisendo la consapevolezza della Presenza divina nel fragile e nel quotidiano, anche il nostro sguardo può cambiare. La fede non cambia la realtà, ma il nostro modo di guardarla e di relazionarci ad essa. Solo allora l’oscurità può essere superata.

La Gloria divina ci appartiene, essa è già in noi, nella nostra quotidianità e deve crescere. Se impariamo a contemplare la Gloria divina sotto le umili apparenze del Piccino, possiamo cogliere quella Bellezza che prefigura la nostra trasfigurazione definitiva, a immagine del Figlio.

(Elisabetta Sangalli)